Una chiacchierata con...

Guido e Marta

Guido Maria Bianchini e Marta Leoni, o se preferite, come per i loro allievi, semplicemente Guido e Marta, insegnano ballo da otto anni, sono maestri di Balboa.
Ma non solo. Amano talmente la musica jazz da aver diffuso la loro passione tramite un podcast nato due anni fa, che hanno chiamato “Lost in the shuffle”, letteralmente “Perso nella confusione”.  In modo da offrire a chiunque voglia avvicinarsi a questo genere una prospettiva musicale diversa, in modo da non farlo perdere, per l’appunto, nella confusione. Come? Raccontandoci tutte le storie del jazz che abbiamo bisogno di ascoltare.
“Shuffle” in realtà ha pure un chiaro riferimento al Balboa, è un gioco di parola: e in questo caso significa muoversi scivolando avanti e indietro senza sollevare o strascicare i piedi, ovvero eseguire una danza con passo trascinante e scorrevole.

«Con Marta abbiamo creato un’associazione culturale – esordisce Guido – e l’abbiamo chiamata “Lost in the shuffle”. Non abbiamo una scuola di ballo vera e propria. Ci interessa creare eventi, abbiamo realizzato questo podcast su Spotify in cui parliamo di musica, di donne nella musica, di sessismo, di razzismo, e diamo naturalmente anche un po’ di consigli su quanto c’è di bello da ascoltare. Il nostro intento è di promuovere la musica dal vivo e raccontare storie di musica».

Come si svolge attualmente la vostra attività?
«Io e Marta stiamo insegnando singolarmente a Milano, Como, Bergamo e Parma. Programmi prossimi? Siamo stati chiamati a Cagliari e al festival di Trieste a luglio».

Raccontaci di come avete iniziato.
«Io faccio il musicista da prima di cominciare a ballare. Ho iniziato quando ho conosciuto Marta, l’ho vista ballare in una serata di Dixieland (*) qui a Milano e mi sono innamorato sia di lei che del ballo. Sono sassofonista e contrabbassista, ho suonato tra gli altri con i gruppi di Giorgio Cuscito e di Mauro Porro. Lo swing è la nostra musica e come contrabbassista sono particolarmente attento ai suoni degli anni ‘20 e ‘30, ho uno strumento settato in particolare per l’hot jazz degli anni ‘30».

A ballare, dunque, ha iniziato prima Marta. A lei abbiamo chiesto di parlarci in particolare del Balboa.
«Posso dirvi perché ho iniziato a ballare Balboa e consiglierei di ballare Balboa. Adoro il fatto che essendo simmetrico permette di scomporre e ricomporre facilmente le figure, di essere molto musicale. Sono libera di interpretare la musica, di giocare sui ritmi. Io ho una predilezione per i ritmi più veloci per cui nel Balboa mi trovo molto comoda».

A quale genere di ballerini lo consiglieresti?
«Per i Lindy Hoppers che non amano apparire troppo, il Balboa è perfetto perché non ha la componente da show del Lindy. Volendo, certo, potrebbe anche averla ma non l’ha per forza: per chi come me ama principalmente ballare senza troppo apparire è proprio perfetto. Inoltre il rapporto tra leader e follower non è così definito: certo all’inizio si comincia col leader che guida e la follower che segue, ma poi ognuno può prendersi i propri spazi e la guida diventa condivisa, rendendo ancora più gestibile la musica come singolo e non per forza come coppia».

E tu, Guido, ti senti magari un musicista “prestato” al ballo swing?
«Quando ho iniziato a suonare avevo la propensione per un jazz più moderno, anni ‘50-60, stile John Coltrane o Sonny Rollins, per intenderci. Grazie al ballo ho scoperto tutto il mondo del jazz classico o jazz tradizionale, chiamatelo come volete: insomma l’hot jazz, tutto quel genere esploso prima della guerra. E mi ci sono appassionato. Io credo ci sia anche un po’ di snobismo da parte dei musicisti di jazz nei confronti dello swing, mentre dello swing c’è ancora tanto da dire ancora, oltre ad essere molto divertente da suonare. Trovo inoltre molto utile dal punto di vista didattico per i musicisti di jazz moderno arrivare a conoscere bene lo swing degli anni ‘30 e ‘40».

Come ti poni in questo ruolo, diciamo così, parallelo?
«Da musicista ho imparato a sentirmi al servizio della sala da ballo. Molti musicisti snobbano il ballo perché manca l’educazione reciproca: certi ballerini spesso non applaudono l’orchestra, mi capita di vedere ai festival gente seduta sul palco, con la schiena ai musicisti, a guardare unicamente la pista e i musicisti così non si sentono molto parte dell’insieme, della festa in corso. A me piace suonare per il ballo perché ho una risposta personale. Poi certo, ci sono ambienti più belli e ambienti più brutti dove farlo. Fino agli anni ‘50 il jazz era una musica da ballo, e se suoni quello degli anni ‘30 che era una musica indissolubilmente legata al ballo, è giusto che la storia si perpetui. In un Jazz Club suono diversamente, posso permettermi di fare altro, sono due livelli di espressività diversi che debbono però essere complementari».

All’inizio parlavi di un doppio colpo di fulmine: lo Swing e Marta…
«Mi sono avvicinato al ballo per caso. Una sera, come ho detto, sono andato in una sala ad ascoltare Paolo Tomelleri che si esibiva in un’orchestra Dixieland. Per qualcuno erano solo “vecchie cariatidi” che per 18 anni hanno suonato per nessuno in un locale sconosciuto di Milano. Lì ho incontrato Marta con altre quattro o cinque persone che ballavano insieme alle mogli anziane di quei musicisti bravissimi. E’ stato un po’ un passaggio di testimone secondo me, una piccola bolla bellissima. Mi sono appassionato nel vedere queste persone ballare, ho pensato che fosse un ambiente stupendo. Marta ballava Lindy Hop ma abbiamo deciso di vivere insieme un’esperienza nuova per entrambi e abbiamo scelto il Balboa. E devo dire che mi ha conquistato subito: mi permette di essere musicale perché si balla più vicini, la connessione è più veloce e quindi mi consente di scomporre il materiale che ho a disposizione e giocarci. Proprio come faccio da musicista. Come suono le fasi sul contrabbasso e sul sassofono, le suono mentre ballo…»

 

(*) Il Dixieland, secondo la definizione dell’enciclopedia Treccani, è uno stile di jazz proprio di complessi formati da musicisti non afroamericani. Nato come imitazione della musica nera tipica di New Orleans, e anch’esso basato sul largo uso dell’improvvisazione, il Dixieland rappresenta un’evoluzione del linguaggio jazzistico, dovuto principalmente alla maggiore padronanza tecnica degli strumenti.

Per seguire i Lost in the Shuffle: https://www.lostintheshuffle.it/

La loro pagina Facebook: https://www.facebook.com/lostshuffle

Per ascoltare il Podcast: https://open.spotify.com/show/37lX3Oeaw5zTg7AhgV06Kv?si=07fa1895a0c14d3e